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In petra
trasfigurazione scenica di memorie di una città

 

 

progetto, drammaturgia e regia
nino romeo

installazione scenica e costumi
umberto naso

musiche
franco lazzaro

attori/narratori
nino romeo, graziana maniscalco, fiorenzo fiorito, fabio monti

attrici/coro
elaine bonsangue, giorgia d’acquisto, marcella parito, simona scuderi

danzatrice/mnemosinedda
sara sanfilippo

musicista/turi de friscaletti
carmelo pellitteri

percussioni
felice currò, roberto fuzio

musicisti/scalpellini
giuseppe di stefano, paco puglisi, giancarlo trimarchi

 

 

Il nucleo centrale di questo spettacolo a più voci artistiche (teatro, musica, installazione visiva, danza) è costituito dal settecentesco poemetto erotico di Domenico Tempio L’imprudenza o lu Mastru Staci che narra dell’enorme membro del materassaio Mastru Staci di cui si invaghisce Donna Petronilla per il racconto che a lei ne fa l’imprudente marito Don Codicillu, notaio.

 

 

Pur mantenendo la prorompente forza comunicativa e narrativa, oltre che il portato ritmico e immaginifico della versificazione -senza trascurare, peraltro, la carica morale di Tempio che si esprime attraverso l’ironia feroce e il gusto per il grottesco-, il poema assume i caratteri di partitura della memoria: memoria mai univoca ma cangiante, a volte in contraddizione con se stessa: memoria letteraria o frutto di esperienze; traslata attraverso i racconti diretti; memoria che si confronta con l’attuale o che si autorappresenta; frenetica o indolente, vagheggiante o irritata; memoria di immagini e di suoni che il tempo ha costruito e sedimentato; memoria della memoria.

E se il luogo della consistenza di questa memoria plurivoca -che trova personificazione scenica in Mnemosinedda- è Catania, l’allocazione d’obbligo è la parte barocca della città; un barocco tipico, settecentesco per necessità, confinante più col secolo dei lumi che con quello precedente -e di questa tensione verso istanze progressive e rivoluzionarie Domenico Tempio è testimone e cantore-.

Così, nello spettacolo, trovano spazio alcuni segni di questa memoria, rivissuti in termini di contemporaneità: le voci narranti si moltiplicano, restituendo il poema in versione collettiva e polifonica; il racconto è scandito da scalpellini che battono, in accordo o in opposizione ritmica, su bàsole di pietra lavica, screziato e contrappuntato anche dalle vanniate (le voci di richiamo dei venditori ambulanti) rese da un coro femminile; un percussionista, con strumenti e materiali ‘concreti’, commenta in funzione di ‘assolo’. E lancia le sue melodie Turi de friscaletti: era costui un giovane che, nella Catania degli anni trenta/quaranta, si incontrava per via Etnea intento a costruire pifferi di canna che, poi, regalava ai passanti in cambio di un tozzo di pane. Da tempo ho determinato di assumere questo personaggio, tramandato dalla memoria di mio padre, come metafora di Catania: una città che ha saputo essere -naturalmente, ostinatamente- generosa di cultura, risorse, umanità, memoria: che non lo è più; che potrebbe tornare ad esserlo.

 

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