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Dondolo

Dondolo
di Samuel Beckett

 

Rockaby (1980), traduzione di Carlo Fruttero e Franco Lucentini

con
graziana maniscalco


regia e luci
nino romeo


scene e costumi
umberto naso

 

Una “Donna su una sedia a dondolo”; il ritmo del movimento, del “va e vieni”, scandito dalla sua stessa voce registrata. La Voce propone alla “Donnasullasediaadondolo” (elementi inscindibili l’uno dall’altro) frammenti di immagini; e li consolida con la costante ripetizione di parole costanti. Ed i frammenti si giustappongono a costruire altri frammenti: frammenti di percezioni, in uno stadio precognitivo.

 

Così la Donnasullasediaadondolo (proprio perché sta sulla sedia a dondolo) riposiziona, attraverso la sua stessa Voce, la sua immagine al di là di una finestra; e da lì si guarda; e da qui guarda la sua immagine; forse così all’infinito e nell’eterno. Coazione autoscopica, autoacustica. Ma lasciamo da parte le identità: da ricomporre, da riscoprire, da compattare. Beckett ci propone una condizione teatrale di concretezza estrema, assoluta (cioè sciolta da contesti provvisori): una condizione che possiamo richiamare con un avviso esperienziale: quante volte, osservandoci a lungo davanti ad uno specchio, abbiamo finito col perdere la collocazione spaziale dell’osservatore: chi si guarda e chi è guardato? E quante volte, nel sonno/veglia, abbiamo udito la nostra voce che ci ripopolava di parole (non concetti, non immagini compiute: parole)? In noi, però, prevale l’orrore autoscopico e distogliamo lo sguardo; ci assale il panico autoacustico e ci addormentiamo (o ci svegliamo). Ma nella Donnasullasediaadondolo (proprio perché sta sulla sedia a dondolo) orrore e panico non si compongono: vengono tenuti a distanza dal movimento. Delle meraviglie della sedia a dondolo Beckett ci aveva già parlato: cinquant’anni prima di questa pièce, quando ad un’altra sedia a dondolo legò Murphy (protagonista del romanzo omonimo, il primo dell’irlandese). Murphy, però, su quella sedia compiva mirabolanti peripezie mentali: ci parlava, ad esempio, delle funzioni esercitate sulla coscienza e sulla conoscenza dalle condizioni luce/penombra/ombra. Fortunato Murphy a decidere di legarsi sulla dondolo: come altrimenti avrebbe potuto godere delle infinite variazioni del chiarore in passaggi immediati e costanti se non attraverso il movimento di questa macchina? Solo una sedia a dondolo ci consente il massimo del movimento: proprio perché, da sedia, non si sposta! Ma la Donnasullasediaadondolo non accampa pensieri, forse non ha mai letto Leibniz, forse non sa neppure chi sia Duchamp. Non ha deciso di legarsi a quella macchina; non avrebbe consistenza né necessità senza quella sedia a dondolo; fuori dalla macchina bascullante non c’è passato né futuro per lei: lei è irrimediabilmente, teatralmente, percettivamente una Donnasullasediaadondolo.

Tante volte ho sentito definire questa pièce “folgorante”: tanto che anch’io mi ero adeguato alla definizione. Oggi, dopo averci lavorato su, con tanto stupore, insieme a Graziana ed Umberto, mi rendo conto di quanto sia deflorante: con la sua essenzialità giunge dove pare nessuno sia giunto mai: a destare (o ridestare) con un’azione teatrale una preconoscenza quasi filogenetica. E, così, attraverso l’assenza di accadimenti fa accadere invece quello che tanti psicanalisti sognano di poter realizzare con i loro pazienti: annullare l’angoscia, l’orrore, il panico (perfino di quella morte evocata nel finale) per realizzare il movimento pulsivo della coscienza: per fare teatro di sé.

 

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