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Commedia
di Samuel Beckett


Play (1962), traduzione di Carlo Fruttero

con
graziana maniscalco
, elena ragaglia, salvatore valentino

regia
nino romeo

scene
umberto naso

 

Un comune triangolo: lui, lei, l’amante di lui. Più che comuni le accuse, le recriminazioni, le giustificazioni. Ma lui, lei e l’amante di lui sono rinchiusi ciascuno dentro la propria urna, solo la testa ad emergere; pur presentandosi allo spettatore l’uno accanto all’altro, ciascuno dei tre non s’avvede della presenza degli altri due; rispondendo con riflesso pavloviano allo stimolo di una luce che alternatamente passa dall’uno all’altro, ciascuno racconta la propria versione di questo comune triangolo, quasi si trattasse di un monologo -o di un interrogatorio- ridotto in frammenti.

 

 

Sin qui, Commedia potrebbe apparire un esercizio di stile: intrigante, inconsueto, originale, di grande impatto visivo. Ma in Beckett le soluzioni sceniche estreme non sono frutto di fantasie bizzarre, non hanno intento soltanto parodico.

Così, dopo aver ottemperato all’obbligo del racconto, ciascuno dei tre personaggi -meglio chiamarli apparenze o sembianze- si rivolge espressamente alla luce/occhio: e con essa dialoga; inveisce contro di essa; la blandisce; alla luce/occhio rivolge domande ancestrali, metafisiche. Lui, lei e l’amante di lui perdono le connotazioni imposte dal triangolo imperfetto che li ha visti congiunti, per rinnovare il disorientamento spaziale, temporale, esistenziale che è proprio del personaggio -apparenza, sembianza- beckettiano: un personaggio che appare proiettato in una affannosa ricerca spirituale che esclude il fideismo e il teismo.

E quando la Commedia viene ripetuta lo spettatore percepisce i contorni della desolata tragedia umana. Vengono richiamati alla mente immagini letterarie ed iconografiche della Commedia dantesca -di cui Beckett era estimatore e studioso-. Ma il contrappasso della ripetizione, coatta e infinita, imposta dalla luce/occhio, risulta ancor più penoso da sopportare che qualsiasi condizione dannata, patita nell’inferno dantesco: la luce/occhio è ancor più crudele di un dio vendicativo e offeso.

All’interno delle proprie urne -che la nostra visione concettuale e l’ideazione di Umberto Naso hanno trasformato in bozzolo, sorta di seconda pelle, contenitore e contenuto ad un tempo- gli attori/personaggi/apparenze/sembianze invocano il buio come estrema condizione di pace e rasserenamento: ma non riescono a sottrarsi alla pressante richiesta di ripetere, ripetere.

E nella ripetizione, le parole si svuotano per lo spettatore di referenzialità, acquistando via via il peso di una purezza dannata. Resta, per noi che abbiamo assunto il carico della rappresentazione e per lo spettatore con noi, soltanto l’effige mimica di un urlo senza suoni che un sorriso stereotipo non riuscirà a stemperare: perché anche quello è un sorriso coatto.

 

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