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Passi
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Passi

Passi
di Samuel Beckett


Footfalls (1975), traduzione di Carlo Fruttero e Franco Lucentini

con
graziana maniscalco

regia e luci
nino romeo

scene e costumi
umberto naso

 

Passi precede di cinque anni Dondolo.

Anche in questo caso l’Autore parte da un immagine; e dall’immagine sgorga una drammaturgia densa e complessa: teatro del vedere che immediatamente si fa teatro del dire. La puntualità (puntigliosità..?) con cui Beckett segue passo passo immagine e parola, con didascalie vincolanti, non è bizzarria formale: è necessità compositiva dell’accadimento scenico.

 

L’immagine (o meglio sarebbe dire l’apparenza): una donna percorre incessantemente, da destra a sinistra, i nove passi di una striscia larga un metro. Il nome della donna è May, ma potrebbe anche trattarsi di Amy (suo anagramma), o della madre di Amy, missis Winter, o della sua stessa madre: la chiameremo allora semplicemente M -Beckett la chiama così…-. Dapprima M apre il suo percorso (non metaforico, ma concreto percorso lungo la striscia di nove passi) dialogando con una Voce, quella della madre. La Voce, in seguito, assume autonomia: ci descrive M e parla di se stessa in terza persona; forse non si tratta soltanto della Voce della madre di M: potrebbe essere la Voce di missis Winter, o di Amy o della stessa May. E’ preferibile, dunque, chiamarla semplicemente V -come d'altronde fa lo stesso Beckett-. Ed M, nel suo monologo finale, ci parla di una se stessa -forse- in grado di uscire fuori da sé per affrontare un percorso (anche in questo caso concreto, non metaforico) misterico e enigmatico: ed il mistero e l’enigma si compongono dinanzi allo spettatore attraverso una configurazione concreta.

Insisto sempre sul termine «concreto» perché la nostra ricerca sugli atti unici beckettiani -e gli allestimenti che da essa conseguono- è proprio basata sulla funzione che l’Autore assegna alla scena, luogo primario degli avvenimenti: ciò che lì accade non ha rimandi simbolici o trasferimenti metaforici: è realtà che si compie davanti agli occhi e attraverso l’ascolto dello spettatore. Come già detto a precedere il nostro allestimento di Dondolo, anche per Passi la percezione -in questo caso possiamo usare ed osare il plurale: le percezioni- è condizione dell’accadimento teatrale e richiesta per la sua fruizione da parte dello spettatore. Anche in Passi, infatti, autoscopìa e autoascolto creano un gioco di specchi e di voci che non tendono a ricreare o ricomporre identità, ma a dare a ciascuna Apparenza o Voce l’unica identità che pertiene e appartiene loro: l’identità teatrale.

C’è un intimo segreto tra M e V (e all’interno di M e V; e in MV considerate nella loro inscindibile unità scenica e drammaturgica): un segreto ineffabile come appunto è per sua natura un segreto. E per poterne parlare M e V ed MV (e Beckett con loro, per loro) ricorrono a piani stilistici, narrativi, tematici costantemente diversi tra loro: il dialogo intimo madre/figlia; la descrizione in presa diretta; l’accenno lirico; l’apologo di stampo quasi vittoriano; accenni alla mitografia cristologica; evocazioni di atmosfere gotiche; e su tutto sembra prevalere un immaginario letterario/iconografico mediato dalla Commedia dantesca. E nel passare e ri-passare sulla striscia si compone un ordito: che poi si disfa al successivo passaggio e ri-passaggio. Il personaggio teatrale non esiste più: permane il suo concreto delirio (andare oltre il solco, la lira latina): non malattia mentale ma condizione mentale quando sottoposta a gesti estremi nell’unico luogo che può accoglierli senza doverli codificare: lo spazio della scena.

 

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